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Tramando: il primo posto va a…

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Ci siamo. Ed è pronta anche la cassa di libri! Manca solo il nome del vincitore…

Prima però volevo ringraziare tutti quelli che hanno partecipato a Tramando. Il tempo libero è oro, grazie per averlo dedicato a questo piccolo torneo.

In queste settimane mi sono molto divertita a leggere i vostri commenti (tanti e articolati) e devo dire che ho amato le risposte dei vincitori. Chi non accoglie le critiche perde parecchie occasioni per imparare.
E adesso la smetto di cianciare.

Il primo posto l’ha vinto un racconto mi ha emozionata e che accoglie al suo interno gli indizi con naturalezza. Il titolo è Ritono a casa e l’autore si chiama Paolo Clarà. Complimenti!

Il dolore mi annoda lo stomaco, produce saliva che spinge dal basso e si allarga nel petto, divora l’aria e i polmoni mi fanno male, tossico ma niente, esce solo un fischio stridulo e intasato, e forse qualcuno mi sta aprendo la bocca, forse mi stanno infilzando la gola con un tubo di plastica per farmi respirare, come ho visto fare a Manfredonia quando stava per morire durante Bologna-Roma e ha ammutolito lo stadio, ha paralizzato i tifosi in quell’istante orribile in cui parlava solo il telecronista e non sentivo niente, come adesso, e c’erano gli sbuffi della macchina che gli ridava fiato. Io non mi accorgo di nulla, è come essere chiuso in una bolla sottovuoto. Ho i dottori intorno. Gli occhi di tante persone addosso, come mosche, si contendono un po’ del mio male.
Mentre affogo nel buio e scompaio, l’unico bisogno che sento è dormire.

 I.
Nel residence dove abitavo quando ero piccolo, fu organizzata una festa per l’attesa della fine del mondo.
A scuola si era sparsa la voce che quella notte un meteorite sarebbe caduto su Varese e la Terra se ne sarebbe andata in mille pezzi in giro per lo Spazio. Così la mia compagna di classe Klaudia, che quell’anno si era trasferita in Italia con i suoi genitori, mi aveva detto: “Salvami, mio eroe”.
Ora, io che alle catastrofi spaziali credevo come uno studioso del sottobosco crede agli gnomi, le avevo detto che non sarebbe caduto un bel niente sulla nostra città. Magari da un’altra parte dello Spazio sì, ma non sulla Terra, che era protetta dalla Stratosfera. Siccome mio padre guardava Quark ogni sera, sapevo tutto su galassie, nebulose, Via Lattea e quant’altro.
Però, se proprio voleva, poteva venire a casa mia.
“C’è una festa, vengono tutti quelli della tv”, le avevo detto senza stare a spiegarle chi fossero. “Mangi due patatine e almeno ti fai quattro risate. Altrimenti, con quella faccia depressa, non ti ci vogliono neanche, nell’Aldilà”.
Ovviamente, Klaudia non si era fatta vedere. I suoi non avevano potuto portarla e, in ogni caso, le avevo già spezzato il cuore senza pensarci due volte.
In realtà, a me della tv non fregava proprio niente, a parte Quark. Ai personaggi famosi di cui si sentiva parlare, io preferivo i calciatori. Loro sì che meritavano la mia attenzione. Alla domenica ascoltavo Tutto il calcio minuto per minuto e in contemporanea giocavo le partite a Subbuteo, da solo. Altro che la Messa di Don Roberto. Aveva preso il vizio di celebrarla la domenica pomeriggio, così i bambini che erano all’oratorio rimanevano fregati. Io all’oratorio non ci ero mai voluto andare e forse anche per questo Klaudia si era presa una cotta per me.
Ma non potevo certo darle retta. Dalle due e mezza alle sei, quel giorno giocai tutta la quattordicesima di ritorno, con l’Atalanta di Caniggia balzata al comando di una classifica pazzesca a tre giornate dalla fine.
Poi, per non togliere la suspense al campionato, decisi di fare un po’ di vasche in piscina prima che diventasse buio e il residence si riempisse di gente.

L’ideatore della festa per la fine del mondo non era un testimone di Geova, né uno di quei santoni moderni di cui a volte si sente parlare al telegiornale. Utah: trentadue adepti della setta di Babilonia si danno fuoco sul lago Sevier. Arrestato il Reverendo. Questi personaggi convincono le folle ad aspettare l’Apocalisse come si aspetta il Capodanno o una compagna di classe con la quinta di reggiseno a un pigiama party.
Nulla di tutto questo, per fortuna. Era solo un notaio siciliano con il vizio della trasgressione. Per l’occasione, aveva affittato lo spazio aperto che la nostra grande villa offriva. Prati, scuderie, campi da tennis. Pineta con piscina riscaldata e vialetti accompagnati da file di torce medievali. In più, la torretta per l’avvistamento degli uccelli, adibita ad angolo romantico, e l’autorimessa. Questa era stata trasformata in privè, con tanto di divani zebrati e il sax di Fausto Papetti. Cocktail di scampi stuzzicavano i palati più esigenti e, ad accompagnare il tutto, Cartizze a fiumi.
Ma la festa andò in malora prima che l’angelo della morte avesse legato il suo cavallo alla cancellata d’entrata.
Devo dire che, visti gli ospiti, non è che fosse in programma una serata memorabile. Tantomeno erano previste sbandate sentimentali. Entro poche ore il nostro pianeta si sarebbe fatto una passeggiata nello Spazio siderale: perché correre il rischio di innamorarsi?
E invece fu il primo germe dell’amore, più simile a un senso di colpa che all’amore stesso, a porre la sua impronta fatale sulla mia esistenza, l’8 aprile del 1990.

Alla festa erano stati invitati alcuni tra i personaggi più in voga del momento. Il più atteso di tutti era il re dei telequiz, Aldo Mastrullo, che giunse  con la campionessa in carica in odore di record, Donatella Zaffrangelo. Altre star della serata erano le ballerine del corpo acrobatico di Tette al Vento. Arrivarono alla villa, accompagnate dal presentatore Umberto Smilza, uno tra gli uomini più invidiati d’Italia, al volante della sua Lancia Dedra turbo diesel fresca di motorizzazione. Con lui anche una pornodiva genovese che in quel periodo faceva furore anche alla radio con la hit Supermacho. Qualche settimana prima, Gigi Vesigna le aveva dedicato un editoriale memorabile su “Tv Sorrisi e Canzoni”.
Gli altri ospiti musicali erano: Glauco Geppetto, il disk jockey che andava per la maggiore in tutte le discoteche della Romagna, Gilberto Canarini, un fenomeno biondo platino che sembrava sceso dal pianeta Carnevale, e un prete cantante. Qualcuno di voi si sarà sforzato di dimenticare quella canzone da avemaria che c’è stata a Sanremo negli anni Ottanta. La cantava questo prete con la chitarra. Barba e salopette, era un ibrido tra il capo metalmeccanici di una ditta locale e il Risorto. Era diventato famoso otto anni prima e ogni tanto lo invitavano come pezzo da amarcord alle feste popolari. Credo che in quel caso fosse stato chiamato a comporre la colonna sonora dell’esplosione finale.
Io ero già in piscina prima che arrivassero loro. Perché nel nostro residence a cinque stelle, con il parco, i viali e la vasca d’acqua calda che a tredici anni mi sembrava di grandezza olimpionica, viveva gente dell’alta borghesia e mio padre faceva il custode. Quindi ci andavo ogni giorno, io, in piscina. Era il mio secondo interesse, dopo il Subbuteo e prima di Quark. Sapevo nuotare a stile, rana, dorso, delfino e a volte mi riusciva anche la farfalla.
Mi stavo ancora asciugando i capelli, quando arrivò Marcello, un signore con gli stivali verdi che metteva sempre in ordine gli spogliatoi anche se la gente non aveva ancora finito di lavarsi. Era tutto agitato e diceva che fuori c’era qualcuno che si stava facendo male.
Così ho guardato verso la piscina: quelle buffe stelle dello spettacolo se le stavano dando di santa ragione. Forse per una che faceva aerobica tutte le mattine su Antenna Tre.
Però ho pensato che volessero festeggiare. Perché finiva il mondo e non era certo quello il momento di essere tristi. Si stavano divertendo, secondo me. Magari un po’ brilli, ma mica si prendono a sberle davvero, pensavo.
E invece, quando il presentatore di Ho fatto 13!!!, vestito proprio bene per l’occasione, con la cravatta, le scarpe lucide e tutto quanto, è caduto nell’acqua della piscina dopo essersi preso un montante da uno che doveva essere Roberto, il baffone degli orologi Watch, io mi sono fiondato fuori dagli spogliatoi per aiutarlo. Non mi sembrava vero che quel conduttore così a modo potesse stare sullo stomaco a uno che ansimava di tosse cavallina e sputava, mentre cercava di venderti la brutta copia di un orologio di plastica su Tele City.
Ma un uomo grande e grosso, con la canottiera rossa e i capelli frisé quello che tanto tempo fa guidava la macchina nera parlante più famosa del mondo che tutti noi bambini degli anni Ottanta volevamo in modellino ma non ce la regalavano mai, proprio lui, Michael Night in persona, si è messo in mezzo. Sulla porta dello spogliatoio mi ha detto di no, che non si poteva passare.
Allora gli ho morso un braccio, perché da piccolo mordevo come i cani, soprattutto se mi veniva negato un diritto a casa mia.
Ha provato a tirarmi una manata, con l’aria del bovino che scaccia i mosconi con la coda. Ma mi sono scansato e, velocissimo, sono corso verso il bordo della vasca.
Solo che, per terra, c’era uno schifo. Un trito di patatine, pennette alla vodka e poltiglie varie. Così ho messo male un piede e ho piantato un volo che neanche gli acrobati del circo Togni.
Fu mentre cadevo che la vidi. Nell’istante in cui il cervello è paralizzato dal terrore del dopo.
Mi apparve come un riflesso sulla superficie dell’acqua. Nell’angolo più lontano della piscina. Entrò nel mio campo visivo solo l’attimo prima di picchiare la testa.
Ormai era quasi buio e intorno alla vasca erano state accese le luminarie da giardino. Klaudia era seduta sul bordo, le gambe in acqua. In costume, la pelle bianchissima. Era bella come la immaginavo, ma non avevo mai avuto il coraggio di dirglielo. Non aveva la cuffia e i capelli, bagnati, sembravano alghe elettriche nel riverbero del lampioncino.
Dormiva.
Era appoggiata con la spalla al paletto di cemento scrostato. La testa piegata contro la boccia di plastica illuminata, come se fosse abbandonata su un cuscino.

 II.
Mia sorella piangeva di gioia quando ho ricominciato a mangiare dopo tanto tempo.
Adesso ho trentotto anni e per domani è prevista la fine del mondo come più di vent’anni fa. Alla tele ne parlano da un pezzo e stasera su Canale 5 fanno una specie di veglione di San Silvestro con la lotteria e le mignotte del Grande Fratello.
A me non frega niente. Penso solo che domani sarò ancora qui a lavorare per rimettermi in sesto. Mi devono aiutare, ma mangio. Faccio riabilitazione tutti i giorni e all’ospedale vado solo quando ho le crisi.
Mi rieduca Klaudia, a casa mia. È un’amica di mia sorella.
Quando torno in ospedale, fortuna che ci sono loro due a tenermi compagnia. I giorni sarebbero eterni se rimanessi in camera da solo. Siete le donne della mia vita, dico, quando ho bisogno di chili di baci sulla faccia.
Non le ho mai chiesto l’età, ma credo che Klaudia abbia i miei stessi anni. Viene dal Lussemburgo e con quella K davanti, signori… Mi ricorda un’attrice micidiale con i capelli neri a caschetto che faceva i film tutta nuda. Da rischiare di essere pescati con le mani nella marmellata, le notti in cui uno dei suoi capolavori passava in tv. La mamma faceva il sopralluogo in salotto per vedere se dormivo o guardavo i programmi sporchi e io cambiavo canale.
Per farla ingelosire le chiedo se ogni tanto mi può portare qualche sua amica giovane. E lei mi dice fai il bravo. Sì, ma bravo cosa? che ormai guarda come sono conciato, dico. Lei sorride e mi dà una carezza sui capelli come fosse la mia mamma bellissima che non c’è più.
A volte non voglio mangiare e sputo la pastina in aria. Se succede quando sono in ospedale, Klaudia mi sgrida. È una vergogna, passare per scemo davanti agli altri ammalati. Però fa parte della rieducazione, dicono i dottori. Devo ricostruire anche il mio carattere. Si è frantumato assieme alle vertebre, con la caduta in acqua. Basta un niente e le mie ghiandole lacrimali fanno festa.
La bolla d’aria che si è formata nelle arterie durante l’operazione ha completato il disastro. Ora ho un braccio inutilizzabile e la schiena ondeggia quando mi portano a camminare.
Ci sono poche cose che ho rimosso del mio passato. I dottori dicono che il pezzetto di cervello che non funziona più ha cancellato il 20 per cento della mia memoria. Di solito la parte che vogliamo dimenticare, dicono. Però a me dispiace non ricordare tutto della mia vita. Anche le cose più complicate, magari col tempo sono diventate semplici.
Mi strigliano apposta e vogliono che torni a essere forte. Però non sono ancora pronto. Se alzano troppo la voce, piango. Non so più trattenere le lacrime da quando mi sono svegliato dopo quel giorno in piscina. Mi sento senza forze e con tutto il sangue alla testa, quando succede. Divento caldo e rosso. Allora Klaudia viene da me e mi dice che non è niente. Stai tranquillo, mi dice, finisce subito. Ma io lo so che, un giorno, quella schiuma che mi esce dalla bocca mi porterà alla tomba.
La stessa cosa è successa allo zio Pazzo, che si chiamava Pasquale. Gridava come un asino quando gli si riempivano i polmoni d’acqua e vomitava saliva. Finché morì soffocato e tutti smisero di chiamarlo Pazzo. Sulla lapide, di fianco al suo nome vero, fu inciso il disegno di una fontanella per simboleggiare la vita. Invece è stata proprio l’acqua che gli è nata dentro a farlo morire. Quella stessa acqua che la zia ha ogni giorno sul viso, come fosse obbligata a mostrare il suo dolore a tutti. E non c’è mattina che si svegli senza il bianco delle lacrime secche intorno agli occhi.
Dicono che lo zio Pazzo abbia perso la testa per la moglie di un uomo di potere. Per questo gli hanno dato quel soprannome. Quello la prese come sfida e una sera mandò un gruppo di balordi a suonargliele per fargli passare una volta per tutte quel brutto vizio. Anche lo zio, come me, si è risvegliato dopo tanti mesi in un ospedale. La riabilitazione però non gli è servita. Alla fine, l’aria nei polmoni è finita e ciao.
Così, adesso, ogni volta che Klaudia mi tranquillizza con le sue mani che sanno di sapone, mi chiedo se succederà anche a me di innamorarmi della donna sbagliata e non riuscire più a farne a meno.
La osservo, mentre sta facendo altro. Con le dita, si preme una tempia e chiude gli occhi per resistere al dolore. Quando li riapre, è spaesata e guarda chissà dove, come se avesse perso l’orientamento. Mi chiedo se sia solo emicrania o se la scuotano pensieri tanto dolorosi da stordirla. Forse lotta per scacciare ricordi che non sa dimenticare. Se è così, allora penso che a me non è andata poi troppo male.

Tutto è veloce. Non c’è un suono.
Scorrono fotogrammi di una pellicola emersa all’improvviso da qualche angolo della mia testa.
Vedo la luce di taglio sulle piccole onde della piscina in cui nuotavo da piccolo. Vedo i lunghi corpi delle persone in piedi trasformarsi in ombre sulla superficie dell’acqua.
Inquadro la vasca da una posizione angolata e mi accorgo di volare a testa in giù. Quando atterro, sento un dolore di ossa spezzate e un calore che mi va in tutto il corpo.
C’è una voragine aperta nell’acqua. Io, senza grazia, affondo nel gorgo, finché sento la presa di mani sicure. Mi afferrano per le braccia. Mentre mi tirano fuori, vedo altre mani che spingono sul petto di Klaudia.
Il suo viso è contratto. I capelli sono bruciati. Un odore di corto circuito accompagna lo scorrere delle immagini, ma non c’è alcun rumore. Ogni cosa che accade sembra programmata per noi due che adesso siamo distesi uno al fianco dell’altra, nella stessa ambulanza.
Mi lascio toccare, accarezzare la testa, mentre Klaudia muove le gambe e tossisce per far capire che è viva.
Ora tutto è più lento.
Una cannula mi buca la gola.
I dottori aspettano una mia reazione.
Mentre affogo nel buio e scompaio, l’unico bisogno che sento è dormire.

 III.
Quando muovo le palpebre, Klaudia mi massaggia la fronte con le dita. Sto riaprendo gli occhi, non riesco ancora a mettere a fuoco.
Mi infila il ditale sull’indice per misurare i battiti.
Il macchinario è silenzioso.
Lontano, in tv, stappano le bottiglie. È il primo minuto di un giorno nuovo.
Klaudia dice: “Ti prego, portami con te”.
Colgo una stonatura. Una corda vocale che salta.

Un attimo dopo ti vedo.
Avvicini alle labbra una foto in cui, nel campetto delle scuole, ho appena fatto gol. Il tocco della tua bocca dura pochissimo, ma mi rassicura.
Poi ti alzi dalla sedia che hai sempre tenuta vicina al mio letto. Ti sistemi in fretta davanti al piccolo specchio. L’armadietto delle flebo è vuoto. Quello più grande è solo una cassa di lamiera grigia appoggiata al muro in verticale. Lo hai chiuso con il lucchetto.
Metti in borsa le ultime cose e ti fermi sulla porta. Guardi la stanza che lasciamo a qualcun altro: il letto rifatto, le lenzuola bianche senza una piega, i cuscini puliti. Hai tolto dal comodino tutti i segni del mio passaggio. I fazzoletti di carta che lasciavo in giro. Le bottigliette d’acqua. I barattoli di omogeneizzati che mi davi da mangiare anche se sapevano di schifo. Le tendine della finestra sono aperte e il sole dichiara che la fine del mondo è lontana.
Singhiozzi, tiri su col naso.
Metti la foto nella tasca interna del cappotto.
Qui, sento il ritmo del cuore.
Fuori c’è ancora qualcuno che scoppia petardi da ieri sera. Nonostante tutto, il mondo è andato avanti.
Mentre noi torniamo a casa.

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